
AVERE UN PADRE
In un ritiro per padri e figli, la prima dinamica consistette nel bendare gli occhi dei papà. Ciascuno doveva riconoscere suo figlio tastandogli il capo e il viso. I bambini aspettavano in silenzio le mani di un padre che li riconoscesse.
Oggi ci sono 170 milioni di orfani al mondo. L’AIDS, la guerra e l’estrema povertà sono i principali responsabili di questa situazione. Eppure, c’è di peggio della mancanza di un padre biologico. Già nell’età moderna si diffuse l’idea che l’uomo è un povero orfano in mezzo all’universo. Il deismo parlò di un Dio creatore che mise tutto in moto e se ne andò, abbandonando il mondo al suo destino. L’uomo, da parte sua, soprattutto dal XVII al XIX secolo, man mano che progrediva nella conoscenza del cosmo e delle leggi della natura, cadde in una falsa autosufficienza.
Durante il XX secolo, la scienza entrò in crisi. L’idea di un progresso scientifico illimitato a beneficio dell’uomo venne sepolta sotto le macerie di due guerre mondiali. Negli anni settanta venne alla ribalta la cosiddetta “Teologia della morte di Dio”. Più di recente, l’Associazione Umanista del Regno Unito ha lanciato una campagna per diffondere l’ateismo a Londra: “Probabilmente, Dio non esiste; smettila di preoccuparti e goditi la vita”.
Ciò di cui il deismo né l’autosufficienza né questa campagna tengono conto è che l’uomo senza Dio non può godersi veramente la vita. L’uomo postmoderno sta sperimentando quel che scrisse un autore del II secolo: “L’ignoranza del Padre è causa di angoscia e di paura”. Non solo perché l’uomo ha bisogno di orientarsi esistenzialmente a partire dalle sue origini, ma anche perché, come diceva A. Pronzato, “tu non sei nessuno fino a quando qualcuno ti ama”.
L’essere orfani, come esperienza di solitudine e abbandono, genera la terribile sensazione della carenza affettiva, del vuoto di protezione, del silenzio dell’amore. È quel che accade all’uomo che non percepisce Dio o si esilia dal suo amore di Padre: finisce col sentirsi “figlio di nessuno”, “figlio del nulla”. Il “nichilismo” (“nihil” vuol dire “niente, nulla” in latino) è forse la peggior condizione di orfanità del nostro tempo.
Quando il Vangelo dà testimonianza della voce del Padre che dice su Gesù e, in Lui, su ogni essere umano: “Questi è mio Figlio”, irrompe nel mondo la consapevolezza di un Amore Paterno che dà consistenza e valore a ogni vita umana. San Giovanni evangelista scriverà poi emozionato: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1Gv 3,1).
Il Padre ha voluto pronunciare queste parole sul mondo fin dal principio, ma non ha trovato se non un’umanità ribelle e autosufficiente, che sospettò della sua filiazione divina. Ora, in Gesù ha trovato finalmente un Uomo Nuovo, obbediente e umile, sul quale poter pronunciare questa frase contenuta da secoli nel suo Cuore di Dio: “Questi è mio Figlio”. E nel farlo ha riversato sull’umanità una benedizione infinita, che per dispiegare tutta la sua potenza paterna necessita soltanto di un atteggiamento filiale da parte nostra.
La vita cristiana consiste nel riconoscere e vivere questa filiazione divina che genera fraternità umana. Per la grazia possiamo essere più umili davanti al Padre e più caritatevoli davanti agli altri. Dio non può essere “più Padre”, ma noi invece possiamo essere “più figli” e “più fratelli”. E anche se non c’è niente che possiamo fare affinché Dio ci ami di meno – nessun comportamento, per mostruoso che appaia, può far questo –, possiamo però permettere che ci ami di più. Ci sia di aiuto meditare sul fatto che dalla sua visione, unica e perfetta, Dio non revoca mai la sua paternità su ogni essere umano; a prescindere dalla sua condizione o situazione morale, Egli dice sempre: “Questi è mio figlio”. aortega@legionaries.org Alejandro Ortega è sacerdote legionario di Cristo, ha conseguito la licenza in filosofia, un Master in studi classici, ed è conferenziere e scrittore. È autore dei libri “Vizi & Virtù” e “Guerra en la alcoba”. Attualmente esercita il suo ministero sacerdotale a Roma.
In un ritiro per padri e figli, la prima dinamica consistette nel bendare gli occhi dei papà. Ciascuno doveva riconoscere suo figlio tastandogli il capo e il viso. I bambini aspettavano in silenzio le mani di un padre che li riconoscesse.
Oggi ci sono 170 milioni di orfani al mondo. L’AIDS, la guerra e l’estrema povertà sono i principali responsabili di questa situazione. Eppure, c’è di peggio della mancanza di un padre biologico. Già nell’età moderna si diffuse l’idea che l’uomo è un povero orfano in mezzo all’universo. Il deismo parlò di un Dio creatore che mise tutto in moto e se ne andò, abbandonando il mondo al suo destino. L’uomo, da parte sua, soprattutto dal XVII al XIX secolo, man mano che progrediva nella conoscenza del cosmo e delle leggi della natura, cadde in una falsa autosufficienza.
Durante il XX secolo, la scienza entrò in crisi. L’idea di un progresso scientifico illimitato a beneficio dell’uomo venne sepolta sotto le macerie di due guerre mondiali. Negli anni settanta venne alla ribalta la cosiddetta “Teologia della morte di Dio”. Più di recente, l’Associazione Umanista del Regno Unito ha lanciato una campagna per diffondere l’ateismo a Londra: “Probabilmente, Dio non esiste; smettila di preoccuparti e goditi la vita”.
Ciò di cui il deismo né l’autosufficienza né questa campagna tengono conto è che l’uomo senza Dio non può godersi veramente la vita. L’uomo postmoderno sta sperimentando quel che scrisse un autore del II secolo: “L’ignoranza del Padre è causa di angoscia e di paura”. Non solo perché l’uomo ha bisogno di orientarsi esistenzialmente a partire dalle sue origini, ma anche perché, come diceva A. Pronzato, “tu non sei nessuno fino a quando qualcuno ti ama”.
L’essere orfani, come esperienza di solitudine e abbandono, genera la terribile sensazione della carenza affettiva, del vuoto di protezione, del silenzio dell’amore. È quel che accade all’uomo che non percepisce Dio o si esilia dal suo amore di Padre: finisce col sentirsi “figlio di nessuno”, “figlio del nulla”. Il “nichilismo” (“nihil” vuol dire “niente, nulla” in latino) è forse la peggior condizione di orfanità del nostro tempo.
Quando il Vangelo dà testimonianza della voce del Padre che dice su Gesù e, in Lui, su ogni essere umano: “Questi è mio Figlio”, irrompe nel mondo la consapevolezza di un Amore Paterno che dà consistenza e valore a ogni vita umana. San Giovanni evangelista scriverà poi emozionato: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1Gv 3,1).
Il Padre ha voluto pronunciare queste parole sul mondo fin dal principio, ma non ha trovato se non un’umanità ribelle e autosufficiente, che sospettò della sua filiazione divina. Ora, in Gesù ha trovato finalmente un Uomo Nuovo, obbediente e umile, sul quale poter pronunciare questa frase contenuta da secoli nel suo Cuore di Dio: “Questi è mio Figlio”. E nel farlo ha riversato sull’umanità una benedizione infinita, che per dispiegare tutta la sua potenza paterna necessita soltanto di un atteggiamento filiale da parte nostra.
La vita cristiana consiste nel riconoscere e vivere questa filiazione divina che genera fraternità umana. Per la grazia possiamo essere più umili davanti al Padre e più caritatevoli davanti agli altri. Dio non può essere “più Padre”, ma noi invece possiamo essere “più figli” e “più fratelli”. E anche se non c’è niente che possiamo fare affinché Dio ci ami di meno – nessun comportamento, per mostruoso che appaia, può far questo –, possiamo però permettere che ci ami di più. Ci sia di aiuto meditare sul fatto che dalla sua visione, unica e perfetta, Dio non revoca mai la sua paternità su ogni essere umano; a prescindere dalla sua condizione o situazione morale, Egli dice sempre: “Questi è mio figlio”. aortega@legionaries.org Alejandro Ortega è sacerdote legionario di Cristo, ha conseguito la licenza in filosofia, un Master in studi classici, ed è conferenziere e scrittore. È autore dei libri “Vizi & Virtù” e “Guerra en la alcoba”. Attualmente esercita il suo ministero sacerdotale a Roma.